Ognuno sia speranza di se stesso*

L'EDITORIALE DI STEFANO LAVORINI. L’uomo sembra, tra gli esseri viventi, il solo che sia reso felice dalle speranze, che si esalti di gioia pensando alle ragioni che potrebbero metterlo nella condizione di possedere una cosa desiderata, ma è anche l’unico che pianga quando le scopre perdute.

Speranza, Raffaello Sanzio, olio su tela Pinacoteca Vaticana Roma

È sufficiente la sola probabilità di raggiungere ciò che vuole (o che gli sembra di volere) perché la sua immaginazione si compiaccia di moltiplicare e stimare oltre misura i piaceri che ne potrebbero derivare.
In tal modo l’anima si entusiasma nel rincorrere beni che ambisce.

Non inventiamo, quindi, né eseguiamo alcuna cosa se non per esaudire i nostri desideri. Ma a ben guardare, troveremo che non vi è nulla di presente nelle sensazioni che proviamo e che l’obiettivo dei nostri piaceri è sempre posto nell’avvenire.

Si potrebbe sostenere, perciò, che chi spera gode; e la felicità dell’uomo è riposta nella lusinga di ciò che aspetta.

«… E la felicità ed il piacere è sempre futuro, cioè non esistendo, né potendo esistere realmente, esiste solo nel desiderio del vivente, e nella speranza, o aspettativa che ne segue», scrive implacabile Leopardi.

La speranza, d’altronde, procura le sensazioni più care al cuore, perché l’anima ama tutto ciò che la fa piacevolmente agire. Questo fa sì che l’immaginazione di continuo appiani gli ostacoli e che l’uomo, contando sulla propria fortuna, sia maggiormente incline al  fare.

Di contro, si potrebbe però dire che la speranza sia un sogno menzognero, utile a null’altro che ad ingannarci.
L’uomo consuma, non raramente, un’intera vita nella speranza di beni che mai otterrà, e i desideri che incessantemente rinascono, lo rendono impaziente e temerario oltre ogni ragione.

Dunque, sia che tutto ciò che costituisce il nostro star bene derivi da questa passione, sia che si tratti di un vano e illusorio sentimento, la speranza appare prerogativa di un mondo in cui la felicità non è durevole.

Ammonisce Seneca: «Non sperare senza disperazione e non disperare senza speranza».

Perché, in fondo, la paura accompagna sempre la speranza, quasi a smorzarne gli slanci e attenuarne l’attrattiva. Anche perché, l’esperienza insegna che alle speranze andate deluse, subentra il più triste abbattimento.

L’uomo si trova così sempre nell’incertezza, dinnanzi al bene che spera e al male che teme. 

Non è forse sventurato colui che vuole aver tutto sulla terra? E il dubbio della ragionevolezza non è forse utile all’uomo nel dare regola ai vani desideri che lo tormentano?

Da qualsiasi lato la si osservi, la speranza è in ogni modo principio di movimento e motore di tutti gli sforzi fatti dagli uomini per preservarsi sulla terra.

È la nostra sensibile divinità, e senza speranza non avremmo ragione dei mali che ci circondano e non sapremmo come conseguire virtù e bene.
Forse per questo qualcuno scrisse: «Quello che diede quanto aveva, e non serbò per sé che la speranza, non si riservò una così meschina parte come potrebbe sembrare: egli anzi prese per sé quanto di più dolce nella vita, e tra i beni che vi si possono trovare scelse il più durevole».

* Virgilio
Eneide, Libro XI-309

 

 

 

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