La sostenibilità insostenibile
I figli piccoli non ti lasciano dormire, quelli grandi nemmeno riposare”.… Di Stefano Lavorini
Questo proverbio yiddish sembra calzare a pennello guardando all’evoluzione del tema della sostenibilità, in particolare nel mondo dell’imballaggio.
Intendiamoci bene, «uno sviluppo in grado di assicurare il soddisfacimento dei bisogni della generazione presente senza compromettere la possibilità delle generazioni future di realizzare i propri»* è un imperativo serissimo, che non si può mettere in discussione se non vogliamo dannarci l’anima.
Ed è per questo che il concetto di sostenibilità ha, correttamente, un significato ampio, che abbraccia oltre alla dimensione ambientale anche quella economica e sociale.
Ma proprio perché è cosa tremendamente importante, è sempre meno tollerabile l’uso e l’abuso, la strumentalizzazione ignorante o, peggio, colpevole della materia che ormai dilaga e che interessa tanto le grandi quanto le piccole imprese.
Era inevitabile che, anni addietro, nella fase iniziale di messa a fuoco del problema, di riconoscimento di quanto negato fino a quel momento con caparbietà, prevalessero comportamenti e scelte di convenienza, che si traducevano in strategie di comunicazione finalizzate a costruire un’immagine ingannevole sotto il profilo dell’impatto ambientale, allo scopo di distogliere l’attenzione dagli effetti negativi per l’ambiente dovuti alle proprie attività o ai propri prodotti.
Ma oggi non se ne può più di questa pratica, di questo sempiterno greenwashing, solo un più sofisticato, che fa perno sulle solite parole chiave, di sapore ecologico, spesso sparate a vanvera.
Certo, tutto fa brodo, come si dice, e vanno benissimo le iniziative che fanno perno sull’utilizzo di materiali riciclati o sull’installazione di tetti fotovoltaici, sull’impiego di lampade a led o sulla scelta di materie prime di origine vegetale, purché si arrivi a quantificare puntualmente costi e benefici, senza nulla omettere.
Affamare intere popolazioni per avere materiali bio-based soddisferà le attese di qualche ufficio marketing, ma non mi sembra propriamente sostenibile; e ridurre la quantità di materiale di un packaging non può rappresentare un vantaggio, al di là delle apparenze, se si aumentano gli sfridi di lavorazione o, cosa ancora più temibile, se si inficiano le prestazioni in termini di protezione delle caratteristiche organolettiche e igienico-sanitarie dei prodotti confezionati.
Cominciamo dunque a mettere nero su bianco: “diamo i numeri” quando parliamo di sostenibilità!
Gli strumenti esistono da tempo e, tanto per cominciare, sarebbe bene non vantare i benefici, di un bene o un servizio, se non quantificandone i potenziali impatti sull’ambiente e sulla salute umana, con un puntuale Life-Cycle Assessment (LCA).
In carenza di “cultura” e di buon senso, quando si parla di materiali, siamo ormai alla caccia alle streghe, per cui, come sappiamo, la plastica è tout court il demone, “l’origine prima del Male”, da precipitare negli inferi.
Personalmente non sono d’accordo.
Piuttosto, sono convinto che questo duttile materiale sia diventato il classico capro espiatorio che, come si legge sulla Treccani, “è capace di accogliere sopra di sé i mali e le colpe della comunità, la quale per questo processo di trasferimento ne rimane liberata”: liberata dall’affrontare problemi più complessi legati alla realtà dei sistemi nazionali di raccolta, selezione e riciclo (e, perché no, di termovalorizzazione) dei materiali.
Evviva allora chi ha il coraggio di uscire dal coro, affrontando in modo più consapevole e sostenibile la sostenibilità.
Fin qui non sono mancate le responsabilità e gli inganni.
Da una parte un mondo produttivo incapace di andare oltre la pura logica del profitto e, per tale ragione, costretto a rincorrere gli eventi (che si fanno sempre più drammatici) senza avere la capacità di anticiparli; dall’altra la convinzione che tutto quello che “non è” sia migliore, anche in assenza di evidenze tecnico-scientifiche.
Ahimé, come in altri campi, sembra che l’importante sia “semplificare”, perché ragionare è ardua fatica che impegna conoscenze e volontà.
Seneca, nel dialogo “La vita felice”, raccomanda, per raggiungere tale traguardo, di chiarire prima di tutto la meta, quindi di studiare bene il percorso, stando attenti a non ascoltare le voci discordi che guidano in direzioni diverse, in quanto le strade più conosciute sono quelle più ingannevoli: «Dobbiamo quindi assolutamente evitare di seguire - come fanno le pecore - il gregge di coloro che ci precedono, dirigendoci dove tutti vanno, anziché dove dovremmo andare… Ma siccome ognuno preferisce accettare l’opinione altrui anziché pensare con la propria testa, anche quando si tratta della propria vita ci si limita a credere anziché giudicare».
Ipse dixit.
* RAPPORTO “OUR COMMON FUTURE” pubblicato nel 1987 dalla Commissione mondiale per l’ambiente e lo sviluppo (Commissione Bruntland) del Programma delle Nazioni Unite per l’ambiente.