Stefano Lavorini










Apro gli occhi e guardo nel buio. Con l’incertezza dei primi momenti in cui ci si sforza di mettere a fuoco il mondo, un timido tremore di piccole tracce luminose in lontananza si materializza sopra la mia testa… Un cielo di stelle. Ma sono a letto, nella camera che mio figlio occupava quando era piccino, e il panorama che mi si offre è quello di tante icone di plastica fosforescente appiccicate al soffitto, forse per nostalgia.
Accendo la luce, la spengo di nuovo e tutto torna a sprofondare in un buio totale, in cui non ho più riferimenti per orientare il mio destino. Un nulla in cui mi acquieto, poggiando la guancia sul cotone liscio del cuscino, cercando consolazione nel buono e nel bello dei ricordi. Attimi, eventi miracolosi, a paragone di quanto di faticoso e doloroso so di dover sopportare. Fors’anche supremi ingannamenti.
Eppure c’è qualcosa di eccezionale nell’esperienza del bello, che va ben oltre il limite umano.
Mi torna alla mente la visione notturna di un campo di grano, che declina e si stempera nei margini di un bosco scuro, al chiarore discreto della luna nascente, esile falce tra le nubi striate che segnano il cielo in cui si animano e immediatamente svaniscono luci effimere di lucciole, in uno sfavillio che rende concreto il senso di un progetto grandioso, a cui tentare di ricondurre la propria esistenza.
Mi sforzo di penetrare il limite dell’inconoscibile e mi accorgo che, forse, ciò che dentro di me è l’immagine dello spazio sopra una città del futuro, dove si muovono sfrecciando una miriade di luminosi veicoli alati, governati con efficacia e senza errori e sprechi da un’unica intelligenza. L’uomo è dio nell’immaginare la perfezione, nel provare e riprovare con caparbietà a smarcarsi dalla morte, nella speranza di vincere la partita.
Mi sento come un guidatore poco accorto che conduce la propria auto a cavallo della linea bianca continua, pensando a dove andare, a tutto quello che potrebbe essere e non è.
E mi aggrappo alla felicità che si manifesta improvvisa nell’imprevedibilità di un evento, di un moto dell’anima, e che mi condanna all’improbabile ricerca di una dolcezza liberata dal dolore, di una gioia senza contrappunto di tristezza.
Ma i bei sentimenti cozzano contro la banalità degli accidenti, e tutto si risolve nell’istinto a lottare che mi conduce ciecamente avanti. Ma dove? Probabilmente quel che conta è andare e non la meta. Così, viaggiatore inconsapevole, dipano la mia esistenza, sperando sia lieve e adoperandomi affinché non sia peggiore.
Come nel Gioco dell’Oca, la vita è un ritornare a fare le stesse cose, costruendo ogni volta percorsi diversi al proprio cammino, in attesa di cogliere il meglio in un attimo di eternità.









Confessions of a layman
I open my eyes and peer into the darkness. With the uncertainty of the first moments in which one strives to focus on the world, a faint tremor of small luminous traces far off materialises above my head…A sky full of stars.
But I am in bed, in the room that was my son’s when he was small, and what I see are those many small phosphorescent plastic icons stuck to the ceiling, perhaps for nostalgia’s sake.
I turn on the light, turn it off again and everything plunges back into total darkness, where I no longer have bearings to guide by fate. A nothingness that becalms me, resting my cheek against the smooth cotton of the pillow, seeking consolation in the goodness and beauty of memories. Fleeting instances, miraculous events, seen against the painful and tough experiences I know I will have to face. Perhaps even supreme deception.
And yet there is something exceptional in the experience of beauty, that goes well beyond human limits. I recall a night-time view of a field of corn, that declines and blends into the edge of a dark wood, in the discreet light of the rising moon, slim sickle amidst streaky clouds that mark the sky where the ephemeral lights of fireflies dart about to immediately disappear, a glimmering that immediately gives concrete sense to a great plan, by which one tries to figure out ones own existence.
I try hard to penetrate the limits of the unknown and I notice that perhaps what lies within me is the image of the space above a city of the future, where a myriad of luminous winged vehicles dart, efficiently and faultlessly governed without waste by a single intelligence.
Man is Godlike in imagining perfection, in stubbornly trying and retrying to stave off death, in the hope of winning the match. I feel like a hapless driver driving his car astride the unbroken white line, thinking where to go, of all that could be but is not.
And I cling to the happiness that rises up suddenly like a sudden unforeseeable event, an impulse of the soul, and that condemns me to the unlikely quest for sweetness devoid of pain, of a joy that is not offset by sadness.
But the fine sentiments collide with the banality of accidents, and everything is reduced down to an instinct to fight that leads me blindly on. But where? Probably what counts is the going and not the goal. Thus, unwitting traveller, I unravel my existence, hoping it is light and striving to make sure it does not worsen. Like the game of snakes and ladders, life is doing the same things over and over, each time taking different paths, while awaiting the chance to savour the utmost in a glimmer of eternity.